Enrico Macioci, Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia

TerraRossa Edizioni, 2022

Mi sforzai di svuotare la mente. Era diventata una stanza piena di paure, una stanza buia con la porta chiusa.

E se ognuno di noi, dopo aver guardato “a lungo in un abisso”, fosse chiamato a scoperchiare i pozzi di inquietudine nascosti negli antri della propria anima?

Enrico Macioci intreccia un plot narrativo che tra metafora e letterarietà sfodera l’inespresso, portandolo alla luce con una ingenua persuasione, con un incedere che, nel volteggio tra tempo del racconto e della storia, strepita come un “rumore che sfregia la pace del tramonto”.

L’autore Enrico Macioci

Con Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia l’autore presta alcuni impercettibili elementi autobiografici (la sua città natale, L’Aquila, ne è esempio) ad una storia completamente nuova, quella del piccolo Francesco e dell’amico Christian, costretti a soli sei anni a vivere un’esperienza traumatica – l’improvvisa sparizione e ricerca di Christian – simultaneamente all’evento di cronaca nera che sconvolse l’Italia nel 1981: la morte accidentale di Alfredo Rampi, detto Alfredino, caduto in un pozzo a Vermicino quando aveva la stessa età dei protagonisti e che morì dopo tre giorni di vani tentativi di salvataggio.

Il linguaggio del romanzo

Sin dalle prime pagine, dalla potente scrittura visiva e fulminea, il gioco tra descrizione e omissione si fa incessante.

Le digressioni, snocciolate dal linguaggio semplice di un io narrante che a volte torna bambino e che con la genuinità priva di sovrastrutture parla al suo lettore, si alternano ad impliciti che ad ogni sillaba insinuano turbamento, la sensazione di un imminente e irreversibile cambiamento.

La narrazione si infiltra tra divagazioni temporali, attraverso allusioni al Coronavirus, alla smodatezza della tecnologia, alla faciloneria di cui oggi ci tacciamo, alternandosi a costanti corrispondenze con la vicenda di Alfredino Rampi, in un giuoco delle parti in cui l’umanità, ovunque si volti e rivolti, in qualsiasi era, perde, con un’algida presa di coscienza che ci chiama “a scrutare il nostro abisso”.

Nonostante lo sguardo deterso della voce narrante, che fotografa i ricordi con autenticità evocando atmosfere serene, come sereni possono essere i pomeriggi assolati che un bambino trascorre a fantasticare senza immaginare il mondo come un antagonista

l’aria era mite e l’estate si allungava sulle ombre cineree degli alberi, sulle chiome verdi scosse dal vento, sui campi gravidi e sugli scorci d’azzurro

la suspense si fa grave pagina dopo pagina, un incrocio di assi cartesiani che sanno intercettarsi perfettamente, ripercorrendo la disgrazia di Alfredo, presagendo un preludio mancino: dov’è Christian? Qual è il suo, il nostro “pozzo”? E quale il nostro posto?

Il mostro oggi non vive più nel folto bosco o fra rocce e ghiacciai o al centro di un lago sperduto. Il mostro oggi vive insieme a noi. Si rintana nelle nostre tasche. Si rifugia fra i nostri dati, le nostre foto, le nostre parole, i nostri silenzi”.

Il libro è un’attenta analisi della psiche

Il libro di Enrico Macioci è un’autopsia della psiche, che sconfessa l’inadeguatezza dell’era adulta, in cui la dialettica tra verità e menzogna spesso sa risolversi nell’inettitudine; mostra le fenditure incrinate della debolezza umana e della sua corruttibilità, incredulità, la sua oggettiva insufficienza:

L’età è il risultato di ciò che la nostra anima sperimenta: vivere equivale a incidere una serie di tacche su un ramo. Se la tacca è troppo profonda, il ramo si spezza.

Con la delicatezza e la cautela di chi sa setacciare il peso delle parole, il tragico dramma di Alfredo Rampi diventa allegoria del declivio umano, quando smettiamo di essere “acrobati sul filo della meraviglia” e ci lasciamo cadere nella voragine, sempre più giù, quando forse nessuno ha più voglia di sfondare la porta ed entrare nella stanza buia.

In questa storia abisso e superficie si sfiorano, cronaca e narrazione si mescono, la storia vera si fa indagine, la fiction si fa verità, diventa storia di tutti: abbiamo dimenticato il Christian che siamo stati, la verità che ci portavamo dentro, obliata da un manto di tenebre.

Rimane sempre da scavalcare il pozzo. Rimane sempre da sfondare la porta ed entrare nella stanza buia.

Un libro che si legge tutto d’un fiato, senza sforzo, ma dal grande carico emotivo: è uno scandaglio che disseppellisce i limiti del sopravvivere umano a vari strati di profondità ma che di questa presa di coscienza ha fatto una risorsa, un punto di partenza per riuscire a scorgere di nuovo quel “cerchio di luce che appare su in cima, lontano”.


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Laureata in Filologia Moderna, Scrivo per una testata di informazione cittadina e da poco opero revisione testuale e correzione di bozze su libri eterogenei. Appassionata di poesia, ho sempre pensato che scrivere sia una sonda ed io continuerò ad esplorare.

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