In questi anni abbiamo “letto” Bari prevalentemente con le lenti dello storico, dell’urbanistica, del sociologo… Oggi proviamo a farlo con quelle del narratore, attraverso un racconto breve di Renato de Robertis, ambientato nella movida del centro cittadino.


Vite baresi, vite da bar

Un ritratto disincantato dell’umanità nei bar di Bari

Prova a trascorrere un giorno in un bar barese. Dove entra ed esce un popolo che vuole essere assolutamente felice. Entra in un bar della movida sul corso Vittorio Emanuele III o sul lungomare Araldo di Crollalanza. Decidi tu. Serve tempo e osservazione. Per osservare, al bancone, gente vestita négligent che con il corpo dice: Smutandati stavamo in casa e così siano usciti. Di voi non ci frega niente! Per scoprire gli impiegati del centro che agognano dieci minuti di pausa… dieci minuti come fossero un giorno di vacanza… dieci minuti e uno sguardo arrapato per le commesse di corso Cavour. Però, prima di tutto, impara a rispettare i baristi: dalle sei del mattino a mezzanotte si fanno un gran mazzo. In fondo sono dei testimoni della voglia di vivere o del male di vivere. 

Allora, se puoi, siediti nel tuo bar preferito. Ti consiglio uno vicino largo Adua, alle ventidue del venerdì o del sabato. Proprio dove siedo adesso, al tavolino di fronte alla toilette. Da questo posto, da uno spiraglio della porta del bagno, intravedo una ragazza: si mette il rossetto, tratteggia sulle sue labbra la speranza per una notte diversa. È così, questo bar di centro metri quadrati viaggia nell’estate. Qua c’è voglia di esserci, di essere diversi da tutti. Tutti diversi ma tanto comuni. Vedi quello? Si spaccia per ingegnere. Con i movimenti dei suoi fianchi sfilerebbe su una passerella milanese. Ripete più volte: “Sono qui per lo spumantino. Sono vestito per andare in tv. Sono incapace di sentirmi uguale a voi. Ho diecimila follower; e anche Dio ha letto un mio post.” È così. 

Siamo immodesti su questo lungomare di notte. Ieri, più o meno a quest’ora, uno di Bari vecchia, il fratello di.., ma non ti dico il nome, è entrato nel bagno strafatto. Ha messo nelle sue mutande un pezzo di pachistano nero. Ha bevuto un Fernet; ed è andato via. Però… però.., a cento metri dal Margherita, ecco un cazzo di posto di blocco. E un cane poliziotto si è attaccato ai suoi pantaloni: è sembrato che volesse staccargli il pene; e non lo ha mollato più.

Più o meno i bar sono set cinematografici. A Bari devi trovare il tuo tavolino. E attendere. La scena si anima di sicuro. Puoi osservare l’avvocato alcolizzato che si è scoperto senza lavoro a cinquantanni; una quarantenne raffinata che mangia un tramezzino; ma, per cento euro, casca a gambe aperte nel letto di chiunque. Sono le creature della vita e del dolore, per dirla con il poeta triestino. 

Per dire anche che, prima o poi, un artista arriva nel bar. Anni fa, in una mattina d’inverno, arrivò Armando Adonino, il cantautore di piazza Umberto I, un artista di strada. Lui mi portò i ricordi baresi degli anni Settanta. Quando fascisti e comunisti si menavano. Quando a piazza Umberto I, al tramonto, si sognava la rivoluzione e una mangiata di panzerotti. Tuttora rammento la sua voce, una voce lenta e dolce. Nel bar, alle dieci del mattino, Armando cominciava con un caffè; poi una birra e prima di andare un Campari. Ripeteva che aveva smesso di suonare per l’artrosi. “Adesso dipingo” e aprì una cartella di disegni a cera. I suoi disegni m’incuriosirono: chitarre, tazze, vasi di fiori, navi… “Li vendi?” gli chiesi. Il suo sguardo fu di sorpresa. Gli comprai due nature morte. Nei giorni successivi parlammo d’arte. “Al mattino la birra rilassa. Però è l’arte che fa riposare tutto il giorno. L’artista, quando crea, fa riposare se stesso. E lui riposa perché diventa altro: diventa la sua opera se dipinge, canta, scrive… Diceva Rimbaud: Io sono un altro.” 

Era gentile Armando. Nel bar preferivo le sue parole alla lettura della Gazzetta. Una mattina un tipo che zoppicava lo fermò sul marciapiede. Vidi la scena attraverso la vetrina. Poche parole e l’uomo levò il suo bastone, colpì Armando. Una mazzata… Il cantastorie di Bari svenne. Ma lo aiutarono in tanti. I tanti che gli volevano bene. Dopo quel giorno lo attesi per bere insieme, per parlare d’arte. Finalmente, dopo mesi, si fece rivedere. Aveva la testa rasata. Esclamai, “Taglio estivo?!” Mi rispose, “Sono malato. Sto facendo la chemio.” Quella fu l’ultima volta che lo incontrai. Mi salutò dicendo, “Ho il bagaglio della mia vita dentro un fazzoletto. E non è da tutti. Sono orgoglioso della mia povertà.”

Armando è morto molti anni fa. Al bar non ho più discusso d’arte. Vedo l’andirivieni mondano sul lungomare. Secchielli di champagne ai tavolini. Belle donne. Gente che dice di essere infelice. Che poi progetta viaggi in Spagna o in Grecia. Mentre Bari va di fretta e non odora di mare. Qui i giovani fumano le sigarette elettroniche. Dicono di essere impegnatissimi. La sera le ombre calde del quartiere Madonnella si fermano su piazza Diaz. Grosse autovetture ruggiscono sui marciapiedi. Proprio adesso nel bar entra un bimbo: ha una girandola rotta tra le mani, va alla toilette accompagnato dalla mamma; sotto le sue scarpette il pavimento è umido, è sporco.


Armando Adonio, cantastorie barese. Pubblicò un cd con le sue ballate. Artista frequentatore di bar e ristoranti in cui cantava le sue canzoni. Un cuore gentile a cui, quasi dieci anni fa, nella ex caserma Rossani, associazioni ed amici gli dedicarono un dovuto omaggio.


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Renato de Robertis, docente di Lettere e scrittore. Critico d’arte per testate giornalistiche online. Ha pubblicato articoli per ‘Il Borghese’, ‘Riforma&Didattica’, ‘Il Corriere del Mezzogiorno’. È autore del libro di prose e versi ‘Bari è un sole notturno’ (Edizione dal Sud, 2020). Dipinge con lo pseudonimo Bertos. I suoi quadri sono disseminati qua e là.

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